Credito cooperativo: luci e ombre del processo di riforma

La rivista Cooperative e dintorni è uno strumento operativo nuovo, totalmente indirizzato a favore degli addetti ai lavori, dei professionisti e dirigenti di cooperativa, che consente loro di poter disporre pienamente di una guida idonea a supportarli nella loro attività quotidiana, nonché dei revisori di cooperativa, impegnati costantemente nella verifica del corretto funzionamento mutualistico di tale tipo di società.

La rivista è articolata in rubriche di specifico interesse, nelle quali verranno approfonditi i temi di maggior rilievo riferiti alle diverse tipologie di società cooperativa. A essi si affiancheranno le indicazioni comportamentali espresse dal Mise, come pure dalle associazioni nazionali di rappresentanza, tutela e revisione delle cooperative.

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Credito cooperativo: luci ed ombre del processo di riforma

 Ormai da tre anni si sente parlare di riforma del credito cooperativo, processo innestato nella più ampia revisione sistemica del settore bancario e finanziario, contraddistinta da una continua e sincopata produzione legislativa e regolamentare, il più delle volte diretta ed ineluttabile conseguenza di direttive europee, espressione di un potere politico sovrannazionale non sempre coerente con le realtà localmente riscontrabili.

Nel ventennio ’80-’90 si è registrata una grande crescita del settore, contraddistinta dalla deregulation avviata negli Stati Uniti, ed emulata in Europa, che ha visto nell’eliminazione della divisione tra banca commerciale e banca d’affari il suo punto di partenza.

L’alta finanza, la “culla” della globalizzazione, si è così espansa, con gli obiettivi e metodiche che le appartengono, al vecchio e rimpianto concetto di banca a cui, chi non è troppo giovane, è rimasto legato con un filo di nostalgia: epoca (ormai giurassica, vista la velocità con cui la globalizzazione cambia il mondo) nella quale il rapporto Cliente-Banca era contraddistinto dalla fiducia e conoscenza reciproca, dove il direttore, con il farmacista, il Prete ed il Sindaco, erano le “istituzioni” della comunità.

La crisi finanziaria del 2008-2009

La commistione tra la funzione commerciale e lo spirito affaristico (tipico della banca d’investimenti) ha prodotto un nuovo modello di business, dove la banca non è più mero prestatore di servizi (creditizi, di pagamento e finanziari), bensì controparte (spesso diretta ed in conflitto di interessi): il vecchio modello di business fatto di servizi alle famiglie ed alle imprese, ha perso di centralità, rappresenta lo strumento di base per operazioni di finanza “alta e creativa”.

I mutui sub-prime ne sono un esempio, rappresentandone una diretta conseguenza. Tale contratto bancario, un tempo, legava il cliente alla banca per un periodo lunghissimo: la banca erogante faceva ben attenzione alle qualità oggettive e soggettive del proprio cliente perché contava di percepirne le rate ad ammortamento del debito. La quantità di erogato era legata alla raccolta che la stessa banca faceva di liquidità dalla propria clientela, in conto corrente o con strumenti quali i certificati di deposito o strumenti di debito (obbligazioni bancarie). Il meccanismo era semplice: la Banca ispirava fiducia ed affidabilità, “riempiva il caveau” di liquidità dei clienti e la usava per concedere loro il credito di cui abbisognavano; la forbice tra i tassi attivi e quelli passivi era la sua massima fonte di guadagno a cui sommava i ricavi per servizi minori (le commissioni dei conti correnti, le commissioni sugli investimenti finanziari, i servizi legati alle cassette di sicurezza ecc.).

Ma come ben ha insegnato qualche film, il business divenne “accollati un rischio e cedilo”: il mutuo divenne lo strumento base dal quale promanava il “rischio” che, mediante la cartolarizzazione, veniva ceduto, insieme ad altre migliaia, a qualche investitore “istituzionale”. Le operazioni di “maquillage” completavano l’opera: la cartolarizzazione nei paesi anglosassoni (culla dell’alta finanza) diveniva ancor più appetibile grazie a garanzie ulteriori (a quelle immobiliari incorporate dei singoli contratti), talvolta solo di natura assicurativa, altre volte governativa. La banca così riguadagnava la liquidità impiegata, mantenendo una “piccola” fetta (anticipata) di guadagno ed era messa in condizione di poter erogare di nuovo, prescindendo dalla raccolta: far fruttare più volte lo stesso denaro, disponibile per la concessione del credito, non poteva che essere occasione ghiotta. Talmente tanto ghiotta da ingenerare ingordigia: a quel punto, se i mutui in erogazione erano destinati ad esser ceduti e con essi il rischio ivi collegato, perché prodigarsi in un’attenta selezione della clientela? Perché non invogliare ed incentivare le famiglie ad indebitarsi (magari ben oltre al livello ragionevole di sostenibilità), pur di raggiungere il plafond necessario per un’altra cartolarizzazione, da cui poi ripartire?

Quando ai mutui sub-prime si associa quello che accadde negli Stati Uniti, spesso si trascura che non ne sono state immuni nemmeno le nostre banche: certo, non si arrivò nel nostro Paese a tale livello di negazione di qualsiasi ponderazione del rischio, ma anche qui l’offerta di mutui si fece molto “espansiva”. Per ampliare l’erogato, si allargarono notevolmente le “maglie” del credito: dapprima si allungarono i tempi di ammortamento (i mutui per la prima volta divennero trentennali, ed ancor di più in qualche caso); conseguentemente si alzò l’età massima all’estinzione; si alzò il rapporto rata/reddito ed allargò la gamma di redditi ed indennità computabili; la percentuale – LTV – sul valore immobiliare divenne frequentemente del 100% ed, in molti casi, oltre. Magari non saranno stati propriamente sub-prime, ma soprattutto gli istituti più grandi, pur salvando la forma, si accollarono gradi crescenti di rischio per poi, come gli istituti anglosassoni, cederli, ma paradossalmente, anche acquistando (spesso) quelli delle altre banche.

Tale “mercimonio del rischio” trovò poi il culmine nei contratti derivati, che per loro natura sono contratti aleatori, di gestione del rischio: le conseguenze che potrebbero derivare da quest’ultimi è ancora addivenire e le cronache di tanto in tanto se ne occupano (è di questi tempi una crescente preoccupazione per la quantità di derivati in “pancia” al sistema bancario francese e tedesco, circostanza di vecchia memoria ma che ogni tanto riemerge).

Cosa accadde quando la “misura fu colma” lo hanno raccontato le cronache e persino la cinematografia.

Il perché di questa narrazione storica troverà risposta alla fine di questo breve scritto.

Il processo di riforme del sistema bancario e finanziario

A torto o a ragione, è sommessa ma convinta opinione dello scrivente che la reintroduzione della divisione tra banca commerciale e banca d’affari sarebbe auspicabile: pensiero consapevolmente contro corrente.

Il legislatore europeo, direttamente e per il tramite dei “regolatori” (B.C.E., Banche Centrali dei Paesi membri ed altre istituzioni, bene o male tutte di “emanazione” bancaria e/o finanziaria), hanno prediletto, invece, la via dell’iper regolamentazione, al punto tale che dalle banche di medio piccole dimensione si solleva un grido di allarme per le difficoltà operative ed i costi eccessivi che ciò sta comportando. Non si tende ad eliminare la causa, ma a calmierarne gli effetti, con un “mare magnum” di regole, spesso sovrapposte e mal coordinate tra loro: non si estirpa all’origine il maggior rischio dato della natura affaristica, si tenta di dominarlo a colpi di leggi, regolamenti, circolari e raccomandazioni. Come soluzione al possibile fallimento di tale meritevole opera, come estrema ratio, è stato introdotto il bail-in per far sì che le crisi bancarie vengano arginate dai risparmi dei singoli.

A tale processo si affianca quello delle aggregazioni, un tempo spontaneo (vedesi gli anni del boom) ora indotto normativamente. La volontà dichiarata è quella di portare i piccoli attori, “riunendoli”, ad una dimensione ottimale per efficienza, solidità e trasparenza, anche se alcune evidenze sembrerebbero suggerire il contrario.

In questo contesto, si inserisce la riforma delle banche di credito cooperativo voluta dalla Legge n. 49 dell’8 aprile 2016, la quale modifica il Testo Unico Bancario negli artt. dal 33 al 37-ter.

Cosa prevede la riforma

Lungi dal voler scendere troppo nel dettaglio, si delineeranno nel seguito solo i contorni della questione propedeutici ad una valutazione del ruolo futuro del credito cooperativo quale prezioso player di nicchia.

E’ prevista l’adesione obbligatoria a Gruppi Bancari Cooperativi il cui requisito minimo patrimoniale è stato quantificato, per la Capogruppo da costituirsi sotto forma di S.p.A., in un miliardo di Euro (patrimonio netto), importo che di per sé assicura una gran concentrazione di BCC in capo a pochissime realtà: le eccezioni a tale obbligo, c.d. way out, sono marginali ai fini della valutazione, come lo è anche la “deroga” data al “gruppo autonomo delle Raiffeisen” della Provincia di Bolzano.

Per le future costituende BCC, l’adesione costituirà condizione indispensabile per l’ottenimento dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività bancaria.

La Capogruppo sarà partecipata dalle BCC “aderenti” (anche mediante “sottogruppi territoriali”), da società finanziarie e strumentali (collegate a loro volta alle prime). La Capogruppo eserciterà l’attività di direzione, controllo e coordinamento verso le società socie mediante il c.d. “Contratto di coesione”.

Una prima conseguenza di queste aggregazioni sarà in termini di vigilanza (su base consolidata) che verrà quasi sicuramente esercitata direttamente dalla B.C.E. sulle società Capogruppo, il cui patrimonio netto già di per sé le farebbe rientrare a pieno titolo nel novero degli “enti creditizi significativi”, rimanendo le singole B.C.C. sotto l’egida di Banca d’Italia.

Orbene, vista anche la cronaca di questi ultimi giorni in merito allo stato di dissesto di Banca CA.RI.GE. S.p.A., non ancora archiate le questioni, le conseguenze e le incertezze sugli altri default bancari, che si stringano maggiormente i controlli anche sui crediti cooperativi non pare di per sé inopportuno (mi viene in mente lo scarso spessore di tanti C.d.A. e la circostanza che la clientela affidata sia anche socia, il che potrebbe suggerire qualche analogia con certe vicende delle Popolari Venete).

L’attenzione, quindi, va spostata sul “Contratto di coesione” che interferisce con la gestione dell’azienda bancaria, in particolare con il carattere di “territorialità” che la connota.

Il comma 3 ex art. 37-bis del T.U.B., così come novellato dalla su menzionata legge, elenca i poteri che obbligatoriamente i Contratti di coesione devono conferire alla Capogruppo:

<<Il contratto di coesione che disciplina la direzione e il coordinamento della capogruppo sul gruppo indica:

a) la banca capogruppo, cui sono attribuiti la direzione e il coordinamento del gruppo;

b) i poteri della capogruppo che, nel rispetto delle finalità mutualistiche, includono:

1) l’individuazione e l’attuazione degli indirizzi strategici ed obiettivi operativi del gruppo nonché gli altri poteri necessari per l’attività di direzione e coordinamento, proporzionati alla rischiosità delle banche aderenti, ivi compresi i controlli ed i poteri di influenza sulle banche aderenti volti ad assicurare il rispetto dei requisiti prudenziali e delle altre disposizioni in materia bancaria e finanziaria applicabili al gruppo e ai suoi componenti;

2) i casi, comunque motivati, in cui la capogruppo può, rispettivamente, nominare, opporsi alla nomina o revocare uno o più componenti, fino a concorrenza della maggioranza, degli organi di amministrazione e controllo delle società aderenti al gruppo e le modalità di esercizio di tali poteri;

 3) l’esclusione di una banca dal gruppo in caso di gravi violazioni degli obblighi previsti dal contratto e le altre misure sanzionatorie graduate in relazione alla gravità della violazione;

c) i criteri di compensazione e l’equilibrio nella distribuzione dei vantaggi derivanti dall’attività comune;

d) i criteri e le condizioni di adesione, di diniego dell’adesione e di recesso dal contratto, nonché di esclusione dal gruppo, secondo criteri non discriminatori in linea con il principio di solidarietà tra le banche cooperative a mutualità prevalente>>.

I sottopunti da 1 a 3 già ad una prima lettura fanno pensare, se poi si prosegue con il comma 4 il vincolo di coesione diventa un “cappio”: <<Il contratto di cui al comma 3 prevede la garanzia in solido delle obbligazioni assunte dalla capogruppo e dalle altre banche aderenti, nel rispetto della disciplina prudenziale dei gruppi bancari e delle singole banche aderenti>>.

Prospettive: luci o ombre?

Come già detto, una delle strade da lungo tempo intraprese è quella delle aggregazioni: la globalizzazione ci ha trasmesso un mantra secondo il quale solo “grande è bello”, solo “grande è forte e durevole”! D’altro canto, il mondo della finanza è trasversale, non conosce confini geografici ed ormai nemmeno ideologici (è esso stesso che si è elevato ad ideologia): l’economia reale è stata relegata a strumento al servizio della finanza e non viceversa come logica vorrebbe.

Il concetto industriale delle “economie di scala” è stato mutuato dal settore, ed innegabilmente fino ad un certo punto è opportuno, ma pare sia la chiave di volta per giustificare l’aggregazione di realtà che diversamente risulterebbero marginali, non per il mercato in cui operano, ma per il Sistema, che così facendo le eleva al target di interesse. Tante piccole realtà efficienti non sono appetibili: un’entità che le inglobi potrebbe costituire lo strumento per sottrarre quelle fette di mercato “ai piccoli” a favore della voracità degli attori del mercato globale che potrebbero guardare con interesse alle nascenti Capogruppo. Questo è uno dei timori, che qualche voce fuori dal coro sta paventando, per il futuro del credito cooperativo. In tal senso, l’art. 4 su menzionato riguardante il “vincolo solidale”, letto anche alla luce del successivo art. 5 <<…… il recesso e l’esclusione di una banca di credito cooperativo sono autorizzati dalla Banca d’Italia avendo riguardo alla sana e prudente gestione del gruppo e della singola banca>> non rassicura in tal senso.

Ma veniamo agli aspetti più operativi. Le BCC da sempre sono vicine alle P.M.I.; negli anni di crisi, quando i grandi gruppi hanno dato vita ad un credit crunch dalle conseguenze pesantissime per questo target aziendale (nonostante fossero foraggiati di liquidità a “costo zero”, se non negativo, ad opera di B.C.E.!) le B.C.C. sono riuscite a tenere un andamento anti-ciclico sia in termini di insolvenze che di erogato.

La sana e prudente gestione a cui si rifà la normativa (nazionale e comunitaria) contemperata con il ruolo sociale e pubblico di sostegno all’economia, hanno segnato la leadership del credito cooperativo rispetto a qualsiasi altro modo di far banca, in questi ultimi dieci anni di crisi.

La vicinanza e la conoscenza del territorio, la minor propensione “affaristica” della gestione, la “mutualità” del comparto (che ha risolto “in casa” le crisi senza riversarle sul bilancio pubblico) sono tutte peculiarità da considerarsi una preziosa risorsa e che dovrebbero ispirare l’individuazione del “nuovo modello di business” che si dice le banche ricerchino. Dopo la crisi patrimoniale e d’identità che ha investito il fenomeno dei confidi, il cui futuro è ancora tutto da verificare, il credito cooperativo è l’ultimo baluardo di territorialità del settore finanziario, territorialità che significa tenere ancora in debito conto che i Clienti sono Persone ed Aziende (con i relativi posti di lavoro) e che si può essere un’azienda bancaria senza fare affari sulle spalle dei Clienti, ma con i Clienti.

 Dott. Stefano Chiodi



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